“Il riconoscimento della dignità e dei principi di uguaglianza di tutti i membri della società umana sta alla base della libertà, della giustizia e della pace nel mondo.” Questo è il preambolo alla “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” che è un documento firmato a Parigi nel 1948 e promosso dalle Nazioni unite. Ciò pone subito l’interrogativo di quale sistema possa essere più idoneo a garantire l’interesse primario della libertà e della giustizia. È una necessità di ogni comunità l’esistenza di regole, rappresentate dalle leggi che devono essere rispettate da tutti per garantire lo Stato di diritto.
L’esistenza delle leggi e la necessità di farle rispettare dipendono da poteri diversi dello Stato che sono il legislativo, giudiziario ed esecutivo , tre poteri che non possono essere affidati allo stesso individuo perché si rischia l’oppressione anziché la garanzia.
Il giudice non può essere al contempo detentore del potere giudiziario e legislativo perché diverrebbe arbitro della libertà dei cittadini. Monteusquieu nello” Spirito delle leggi” del 1748 afferma :”E neppure vi è libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e da quello esecutivo”, quindi uno Stato giusto deve separare i poteri per evitare che chi fa le leggi agevoli se stesso.
Se esiste una legge che punisce un reato, deve esistere una pena che deve essere certa e proporzionata al tipo di reato che la legge contesta.
Anche la Costituzione italiana, nell’ articolo 25 chiarisce che il fatto costituente reato e la sanzione che si ricollega alla sua commissione devono essere espressi dalla legge e nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge.
Elvio Fassone nell’opera “Fine pena- subito” entra in merito sulla certezza della pena sostenendo che ogni cittadino debba sapere se una condotta costituisce reato e quali sono le sanzioni previste per quel reato, nonché il cittadino che non delinque deve essere certo che la pena sarà applicata in tutto il suo rigore ed espiata con intransigenza inoltre afferma che la pena è certa quando né il reato né la sua misura sono frutto dell’improvvisazione del potente.
Il giudice deve attenersi scrupolosamente a ciò che è scritto nelle leggi, perchè egli , in quanto uomo , è soggetto alle debolezze tipiche del genere umano.
Beccaria affronta questo tema nell’ opera “Dei delitti e delle pene” allorquando afferma che “ciascun uomo ha il suo punto di vista” e sostiene che senza leggi certe tutto dipenderebbe “dalla violenza delle passioni, dalla debolezza di chi soffre, dalle forze che contagiano l’animo umano” e si assisterebbe quindi a sentenze mutevoli da giudice in giudice o da tribunale i tribunale.
Bisogna infine considerare quali sono le pene più giuste e quale è il fine delle pene inflitte per un reato commesso.
Si sente parlare spesso di pene estreme come la morte o la tortura e ancora oggi ci sono persone che sostengono la necessità della pena di morte ma come può uno Stato civile diventare un assassino?
Beccaria nel suo trattato evidenzia la sua contrarietà alla pena di morte e alla tortura: è contrario alla prima perché non si può punire una persona annientandola e perché si rischia di commettere delitti contro innocenti, è contrario alla seconda perché sotto tortura si dichiara qualsiasi cosa e quindi non si può accertare la verità nè stabilire veramente se un uomo è colpevole o innocente. Di contro, invece, sottolinea l’importanza del carcere come strumento unico per espiare la condanna, per rieducare il soggetto a non commettere più reati e perchè sia un esempio continuativo per gli altri.
In ogni Stato civile, il diritto deve essere quindi lo strumento per la costruzione di una società nella quale siano difesi sia il singolo cittadino che gli interessi generali comuni.
Sergio Balbo “I.I.S. G.B. Vaccarini” CT