Cesare Beccaria è annoverato tra i massimi esponenti dell’Illuminismo italiano e spesso ricordato come uno dei padri fondatori del diritto penale.
“Dei Delitti e delle Pene” è un’attenta analisi politica e giuridica contro la pena di morte e la tortura, sul modello del tipico razionalismo illuminista e sulla base dei nuovi ideali di libertà,giustizia, diritti e uguaglianza che l’età dei Lumi propone.
Il problema affrontato da Beccaria riguarda l’incertezza,l’inattendibilità e la profonda ingiustizia della legge.
“Veggiamo gli stessi delitti dallo stesso tribunale puniti diversamente in diversi tempi, per aver consultato non la costante e fissa voce della legge, ma l’errante instabilità delle interpretazioni”.
In questo frammento del IV libro di Beccaria sull’interpretazione delleleggi, emerge chiaramente la necessità di una legge che si proponga come certa, giusta e sempre valida. Il problema della legge, che troppo spesso non è funzionale all’obiettivo di giustizia che si propone,riguarda due provvedimenti in vigore ai tempi di Beccaria e in certi Paesi tutt’oggi: la pena di morte e la tortura.
Ma la pena di morte è realmente utile? Riesce a perseverare nel suo obiettivo di prevenzione pubblica? Con questi interrogativi Beccaria ci invita a riflettere sul fine ultimo della pena, che non dovrebbe concretizzarsi in uno sterile accanimento sul corpo reo, ma piuttosto dovrebbe servire alla sensibilizzazione della comunità.
Il secondo grande problema denunciato dall’autore riguarda la tortura. La tesi fondamentale è: che la tortura non è il mezzo per scoprire la verità; una confessione strappata tra i tormenti nasce dal desiderio umani che il dolore cessi. Non può essere pertanto considerata né vera né attendibile.
Il problema della tortura riguarda non solo l’ambito penale, ma anche quello morale: che tipo di uomini e donne vogliamo essere? Quale deve essere il nostro sentimento davanti alle atrocità del nostro mondo? Nel momento in cui l’uomo si abitua all’orrore, il rischio è che il confine tra giusto e ingiusto diventi sempre più labile, fino a scomparire.
La riflessione di Beccaria suggerisce come soluzioni pene detentive più lunghe ma più moderate della condanna a morte.
La macabra esibizione di un condannato a morte o la cattiva sorte di un uomo straziato dai dolori della tortura, lasciano poco spazio all’intento educativo, facendo nascere nell’animo di chi guarda un sentimento di orrore misto a compassione.
Interessante è una prefazione a “Dei delitti e delle pene” scritta da Stefano Rodotà per Feltrinelli: egli prende in analisi il tema della “pubblica felicità”, argomento centrale della poetica illuminista e del trattato di Beccaria.
La legge dovrebbe configurarsi come una ricerca del benessere comune, che guardi all’interesse di molti e non solo dei pochi privilegiati. Rodotà definisce l’arbitrio come “nemico della ragione”, a dimostrazione del fatto che il potere non regolamentato adeguatamente dalla legge degenera nell’ingiustizia, rendendo il magistrato oppressore.
Seguendo le orme di Beccaria, prima di pronunciare verdetti di condanna, sia in tribunale che nella vita, bisognerebbe guardare a quei diritti naturali, imprescindibili e inalienabili che fanno parte della nostra essenza.
Cerchiamo allora una strada che abbia sempre come fine la rieducazione del colpevole, che anche dopo un reato, deve essere considerato un essere umano, degno di rispetto anche se meritevole di una condanna commisurata alla grandezza del reato commesso.