“Rieducazione” è una fra le prima parole chiave in campo giuridico. Tale parola assume un significato fondamentale nel momento in cui si voglia stabilire una pena per un individuo ritenuto colpevole dalla legge. Nell’attuale sistema giuridico italiano, la pena più alta prevista dalla legge è l’ergastolo, una detenzione perpetua per il condannato.
Se nel XVIII secolo il nucleo del dibattito giuridico riguardava la legittimità della pena di morte, al giorno d’oggi una domanda rimane valida: quanto c’è di ingiusto e quanto di giusto nell’ergastolo?
Questa domanda potrebbe subito farci cadere in errore; alla luce di ciò è utile evidenziare il fine reale di una pena. Infatti in Italia, quando si parla di pena, dovrebbe essere immediata la menzione di parole quali “risocializzazione” e “reinserimento”, come ci viene chiaramente illustrato dall’art. 27 della nostra Costituzione.
Alla luce di tali considerazioni lo Stato italiano distingue due tipi di ergastolo: quello normale e quello ostativo.
Il primo concede al condannato la possibilità di usufruire di permessi premio, di semilibertà o di libertà condizionale. Il secondo nega invece al detenuto ogni forma di beneficio a causa di reati considerati particolarmente efferati come quelli di tipo mafioso o i reati in materia di droga.
Questo secondo tipo, come già rilevato da molti giuristi contemporanei, appare in forte contraddizione con il concetto di pena indicato nell’art. 27, poichè rasenta un trattamento contrario al senso d’umanità.
Tuttavia, e soprattutto in questi casi, l’ergastolo non appare una pena illegittima o eccessivamente crudele, in quanto sembra adeguato comminare una pena che possa essere incisiva e idonea per il crimine commesso affinché l’efficacia deterrente della pena venga assicurata, prerogativa senza la quale nessuno sarebbe portato ad osservare e rispettare i precetti contenuti nella legge.
Quale possibilità di fine pena dovrebbe essere garantita a chi, anche se ergastolano, dimostra di essere cambiato? Il problema è aperto.