Ormai quasi tutti in Occidente possiedono uno smartphone. Secondo le indagini della Gfk si è arrivati alla commercializzazione nel solo 2014 di 1,22 miliardi di smartphone, numero che è lievitato ulteriormente fino ad oggi. Questi dispositivi entrano a far parte della vita delle persone di ogni fascia di età e specialmente tra i più giovani creano una vera e propria simbiosi. Vero e proprio fenomeno di massa esplosivo degli ultimi otto anni, lo smartphone è davvero solo uno strumento che facilita la comunicazione, la navigazione e la condivisione delle informazioni?
Per comprenderne appieno il potenziale, bisogna essere a conoscenza del fatto che il mondo informatico è nelle mani di poche, pochissime persone. Persone come Larry Page, fondatore di Google, e Mark Zuckerberg, fondatore e CEO di Facebook, hanno creato la possibilità di cercare nel web ciò che ci serve e di vedere, solamente eseguendo un’app, cosa succede alle persone che rientrano nella cerchia prescelta. In entrambi i casi tuttavia, l’ordine in cui i risultati di ricerca o gli eventi appaiono non è né casuale né cronologico: il tutto è gestito da un complesso algoritmo che ordina secondo ciò che, dati precedentemente prelevati alla mano, può essere più “pertinente”.
Di per sé l’algoritmo non è schierato politicamente. Lo stesso però non si può di chi quell’algoritmo lo scrive secondo la logica del mercato consumistico. Esso infatti non solo controlla la pubblicità opportunamente dichiarata ma si fa anche portatore di quelli che Pasolini chiamerebbe “modelli del centro”. Come la televisione negli anni Sessanta, lo smartphone è attualmente il mezzo attraverso cui essi viaggiano dritti nella mente del suo utilizzatore. Sfruttando i meccanismi psicologici di massa, come ad esempio la cosiddetta “riprova sociale”, è facile deviare in un senso o in un altro l’opinione e soprattutto lo stile di vita di una quantità spropositata di persone, in quanto uno strumento simile riesce a comunicare in tutti i canali possibili: vista, udito, scrittura, lettura e persino il tatto, opportunamente sollecitati dalle applicazioni che vengono eseguite e che suscitano emozioni irrazionali e spesso distanti dalla realtà locale -la periferia pasoliniana-, da cui si viene violentemente allontanati da una quantità immensa di informazioni provenienti da tutto il mondo. Ne scaturisce un fluente e incessante cocktail di immagini, suoni e infografica, in altre parole un linguaggio nuovo e ridotto all’osso, che tocca la “pancia” delle persone piuttosto che la mente.
La situazione si mostra parecchio più inquietante nel momento in cui gli studi pubblicati sul Journal of Behavioral Addiction della Baylor University su un campione di ragazzi tra i 19 e i 22 anni rivelano che il tempo trascorso complessivamente tra social e internet del 60% dei ragazzi raggiunge le 10 ore giornaliere. Non è difficile notare che lo smartphone generi dipendenza, specialmente tra i ragazzi, bombardati da una pubblicità inconsapevole. Il rischio è che intere generazioni vengano allontanate dalla consapevolezza, dalla percezione della propria realtà a causa di irrazionali e immotivate emozioni, costruite a tavolino e provenienti da lontano e da chi ne fa un profitto, in una dittatura silenziosa capitalista in cui tutti sono i mattoncini inconsapevoli del circolo vizioso della massa che devia la massa deviata a sua volta da chi controlla e vende un orwelliano “telescreen” che non puoi spegnere perché non vuoi spegnere. Siamo appena entrati in un totalitarismo mentale consenziente in cui la realtà, come il linguaggio che la descrive, è ridotta all’osso. La consentaneità e la sua natura mentale renderanno difficile uscire da un fascismo il cui duce, non più facilmente riconoscibile, non grida da un balcone ma inonda i nostri occhi di informazioni poco prima di addormentarci nei letti delle nostre case sicure.
Matteo Scalia